Edizione | Ed. Edi-Pan 1985 EP 4002E |
ISMN | 979-0-52011-151-5 | Parti staccate | 1 x parte violini I e II – viole – violoncelli – organo – coro |
Il musicologo Alberto Jesuè, competente studioso di Platti e al quale debbo la conoscenza di questa Messa da Requiem da lui rintracciata nella biblioteca del Conte von Schönborg a Wiesentheid, ha scritto per l’edizione discografica della Messa (pubblicato da questa stessa casa editrice) un’ampia presentazione sulla vita e sulle opere di Platti; pertanto elencherò qui le notizie più essenziali.
Platti nacque a Padova, o nei dintorni di Padova, il 9 luglio 1697.
Studiò con Francesco Gasparini a Venezia. Nel 1722 emigrò alla corte del principe-vescovo von Schönborg, assieme ad un gruppo di musicisti italiani, dove esercito la multiforme attività di violinista, cantante, compositore ed oboista. Platti rimase per oltre quarant’anni e cioè fino alla sua morte, avvenuta l’11 gennaio 1763, alle dipendenze di quella corte.
In qualità di compositore ha lasciato un buon numero di sonate per clavicembalo solo, per violoncello e continuo, per violino, per flauto solo e molte sonate a tre oltre a circa 50 concerti: per archi, con violoncello concertato e con violoncello obbligato, per clavicembalo e archi. Quattro Ricercate per violino e violoncello, Cantate, musica sacra (tra l’altro, oltre questo Requiem, un pregevole Miserere) e un’opera lirica, purtroppo andata perduta insieme ad alcuni Oratori.
Il presente Requiem, denominato dall’autore “Messa concertata quattro voci”, si avvale del tradizionale testo latino della Messa dei defunti, ridotto in alcune sue parti. Del “Dies irae”, infatti, sono musicati soltanto i primi tre versetti e gli ultimi due. La composizione termina con il Communio (“Lux aeterna).
Il coro è vero protagonista della Messa; nella scrittura corale si alternano omofonia (o meglio omoritimia) e polifonia, con particolare risalto alle brevi fughe ed ai fugati a 4 voci, tradizionalmente ricorrenti nelle seconde parti dei versetti e negli “Amen”.
L’orchestra, composta di soli archi, e l’organo (che il revisore consiglia di alternare con il clavicembalo) oltre che avere funzioni dialoganti con le voci corali e solistiche, raddoppiano sovente, all’unisono o all’ottava, le parti del coro. Il complesso strumentale è spesso adoperato nelle introduzioni e nei finali dei vari brani della Messa.
Come d’uso nel secolo XVIII la scrittura musicale per l’organo, nell’antico manoscritto autografo, è limitata al rigo del basso continuo numerato. La scrittura su due righi è opera nel revisore.
La composizione ha inizio con un ondulante, geniale ritmo di crome modulato dagli archi. Questo “Largo” introduttivo, sulle parole “Requiem aeternam dona eis Domine” crea un’atmosfera di profonda mestizia che avvolge subito l’ascoltatore. La contenutezza delle sonorità, perseguita per quasi tutta la durata della Messa deriva, oltre che dal “piano assai” segnato dal compositore, dalla rigida osservanza della norma che raramente permette ai complessi corali e orchestrali di usare quelle note (trasposte nelle chiavi di violino e basso) che superino in altezza la dimensione del pentagramma.
Il secondo brano è un duetto di pregiata fattura per soprano e basso, che procede con agilità tra i giochi imitativi delle voci e con l’orchestra che realizza brevi segmenti sonori intervallati da varie pause.
Il “Kyrie” nella tonalità predominante del Requiem (do minore), si apre con cinque battute di un’ampia coralità, che introducono una classica fuga a 4 parti, ben costruita e rispettosa di una schematicità tradizionale. L’orchestra raddoppia, all’unisono, le parti del coro.
Il primo versetto del “Dies irae” è un brano in fa minore, dove le parti corali, sempre all’unisono con l’orchestra, si muovono su ritmi monofonici. Un delicatissimo tema degli archi, in tempo ternario, quasi un soave movimento di valzer lento, che contrasta stranamente con il severo testo, apre secondo versetto “Quantus tremor”, eseguito da tre voci soliste (soprano, tenore e basso), ornato da varie imitazioni. L’orchestra interviene, con discrezione, a ravvivare qua e là il brano concludendolo con sonorità sostenuta.
Molti compositori, del nostro secolo e in quello precedente, hanno sottolineato le parole della terza strofa del “Dies irae”; “Tuba mirum spargens sonum”, con particolare incisività orchestrale e corale. Platti affida invece questa strofa a due voci soliste di basso, inserite in una atmosfera di vivacità ritmica e coadiuvate da un basso continuo saltellante (che il revisore ha suggerito di rafforzare con il suono di un fagotto) che creano un risultato fonico efficace ma singolare per il contrasto con la pacata, ricorrente, stesura musicale della Messa.
Si passa ora al penultimo versetto della sequenza: “Lacrymosa dies illa” costituito da un brano corale in mi bemolle maggiore, in tre movimenti, rigorosamente omofonico. L’orchestra accompagna le voci del coro con un ritmo quasi ottocentesco (una semiminina dei bassi in battere contro cinque crome, precedute da una pausa, realizzate dagli altri strumenti). Il brano, molto suggestivo, è caratterizzato da particolare misticismo.
Nell’ultimo versetto del “Dies irae”: “Huic ergo” il soprano solo si alterna con le parti corali in forma di un dialogo che preveda la ripetizione armonizzata di una stessa frase musicale, così come il sacerdote nel rito della Santa Messa si alterna con le voci della comunità. La breve fuga sull’”Amen” finale si svolge secondo le regole consuete.
L’offertorio (“Domine Jesu”) riprende la tonalità base di do minore ed è eseguito dal coro insieme a limitati interventi dei solisti di canto. Alle parole “et de profundo lacu” Platti introduce nel brano elementi imitativi a carattere cromatico con note discendenti inserite in variati passaggi armonici e realizzate attraverso una tessitura vocale limitata ai soli registri medi e bassi che coaudiuvano realisticamente la cupa espressione delle parole del testo. L’orchestra dialoga con le voci, ma spesso le raddoppia. Segue un ampio fugato per coro e orchestra sulle parole: “Quam olim Abrahe promisisti et semini eius”.
Nel “Sanctus”, dopo una breve enunciazione corale, ancora un fugato di notevoli proporzioni sull’”Hosanna in excelsis”, contrappuntato da un vivace ornamentazione dei violini, con ricorrenti forme di canone e sopra insistente movimento ritmico di crome dei bassi strumentali e dell’organo. Una splendida pagina musicale contraddistingue il “Benedictus”, affidato alla voce del soprano solista che interpreta una serena, nobilissima melodia in mi bemolle maggiore intonata, all’inizio, dai violini primi che successivamente si uniscono all’accompagnamento semplice e lineare di tutti gli altri strumenti. (Il revisore ha suggerito per l’esecuzione di questo brano, l’uso dei soli strumenti ad arco senza l’ausilio dell’organo. Inoltre ha creduto opportuno aggiungere qualche isolata fioritura nel canto ed una breve cadenza finale).
Nel’”Agnus Dei” il coro si impegna, insieme all’orchestra, in un brano che riveste carattere di classica polifonia.
Nell’ultima parte del Requiem: “Lux aeterna”, Platti conferma, con un fugato dal tema solenne e conclusivo e ricco di fantasia compositiva, il suo talento musicale e chiude il suo riuscitissimo lavoro che lo colloca in una posizione preminente nei confronti di molti musicisti del suo tempo.
Luciano Bettarini